Le Muse
08 settembre 2022

Oggi è con noi Max Gasparini, un artista che ha fatto dell’umanità il centro nevralgico della propria ricerca. Le sue Muse, seducenti e ambigue come sirene, assurgono a vere e proprie apparizioni, tra accenti lirici e suggestioni espressioniste.

La tua poetica si contraddistingue per una ricerca estremamente materica. Raccontaci come sei arrivato all’elaborazione di uno stile che riesce a fondere lirismo e tratti quasi espressionisti. Parlaci della la tua formazione di uomo e di artista. 

L'abbandono del rigore formale classico, che mi ha accompagnato nell'attività artistica privata, è arrivato con l'esigenza di esporre ed entrare così nel mondo dell'arte. Il disegnare, il dipingere a tempera all'uovo e l'amore per la scultura (mai praticata) si è trasfigurato nell'incontro coi materiali. Così la scultura è diventata l'uso di gesso e stucco e il disegno i tratti decisi, a volte espressionisti del nero acrilico. Si sono fusi l'amore per Dürer e le sue incisioni con la brutalità primordiale dei materiali di Burri, la gestualità dell'informale con un'idea che ho della casualità in Rauschenberg. Ho trovato linfa vitale nel bianco e nero, e il gestuale nel rigore della forma. È il mio equilibrio, dove l'istante di un gesto rompe con schizzi e gocciolature l'anima formale di un soggetto.

Le donne da te ritratte sono misteriose e affascinanti apparizioni che richiamano all’ascolto della propria interiorità e parlano allo spettatore attraverso sussurri antichi. Chi sono queste figure femminili? Sono esse reali? Archetipi? Ideali?

Il mio viso di donna, che sia introspettivo o che guardi nell'altrove, è un archetipo del tutto, frammentato, strappato, precario, sgocciolante come statua di cera: voglio rassicurare e rassicurarmi che è così, un'inevitabile Vanitas.

Le tue tele – o per meglio dire – le tue jute, sembrano trarre linfa vitale dalla contrapposizione. Da un lato abbiamo soggetti caratterizzati da una bellezza eterea e senza tempo, dall’altra una palette estremamente minimale e una sperimentazione formale con materiali “poveri”. Come riesci a fondere questi due estremi e portare alla luce un risultato così toccante?

L'utilizzo di materiali già vissuti, quindi già sformati, rotti, e di volta in volta "ricuciti" mi danno una nuova possibilità. La scelta iniziale del supporto, sia un cartone, una lamiera o un sacco di juta è la sfida principale...il volto o il corpo che ne uscirà sarà una mediazione con esso, e lascerà le sue tracce indelebili con una rottura, cucitura o ruggine. La visione finale è così meno legata al mio agire, trovando più possibilità di visione.

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